Nulla Osta n. 7.027 del 02.01.50; 2.515 metri. Direttore d’orchestra: Ugo Giacomozzi.
Come scopersi l’America, come già L’eroe della strada, riprende a grandi linee e fin dal titolo la formula di Come persi la guerra, però con un tono più crepuscolare «che caratterizzerà poi in pieno il Macario di Italia piccola, diretto da Mario Soldati nel 1957. Dal punto di vista interpretativo la serie di Borghezio, che aumentò la fama di Erminio quale eccellente attore cinematografico, vedeva nei panni di protagonista un comico che voleva a tutti costi sfuggire dall’improvvisazione farsesca propria di quasi tutti gli altri colleghi italiani, per tendere invece a umanizzare i propri personaggi circondandoli di patetico. L’umorismo lieve e aggraziato di Macario in questi film aveva come costante un fondo di malinconia: le trovate, mai fini a se stesse, erano frutto di una ratio satirica più complessa nella quale la vis comica nasceva e si sviluppava dall’antitesi tra la bontà dell’omino e la malizia generalizzata del mondo che lo circondava» (M. Ternavasio, Macario, Lindau, Torino, 1998).
«Non v’è solamente comicità in Come scopersi l’America; molti dei numerosi e divertentissimi episodi hanno sapore e valore di satira corrispondente, del resto, all’assunto generale del film. Sceneggiato bene, ben diretto, ben interpretato, ricco di ambienti svariati Come scopersi l’America non è inferiore a gran parte della produzione cinematografica americana di questo genere» (“Cine Illustrato” n. 3, 15.1.1950).
Al contrario dei due film che lo precedono, Come scopersi l’America, pur incassando poco meno di Come persi la guerra, non ebbe però particolari consensi da parte della critica: particolarmente feroce è ciò che scrive la rivista “Hollywood”: «Costituito da una serie di raffazzonamenti senza capo né coda, di pessimo gusto […]. L’assoluta assenza di ogni originalità, di ogni verosimiglianza […] e quindi di ogni rispetto per il pubblico […]. Affiora la satira politica, ma povera e meschina. Il film ignora la psicologia della comicità […] tutto è prevedibile» (A. Sani, “Hollywood”, n. 232, 1950).
Contribuiscono forse a rendere il film poco riuscito e poco apprezzato dal pubblico sia lo scarso affiatamento della male assortita coppia Macario-Ninchi, sia l’allontanamento del comico dai temi legati alla quotidianità, in favore di una satira più generalizzata e di gags surreali, astratte.
«È questo il terzo film della serie Macario iniziatasi con Come persi la guerra e proseguito con L’eroe della strada. Dei tre film, purtroppo, questo di gran lunga il peggiore, per povertà d’inventiva, per scarsa originalità di trovate, per assoluta mancanza del benché minimo senso di ambientazione» (a.a., “Intermezzo” n. 2, 31.1.1950).
«Come scopersi l’America è un’altra macariata. […] Il pubblico si pigia, s’incoraggia a ridere, sorride poi d’aver riso, e, contento lui, contenti tutti. Però ancora una volta il film ci propone quale potrebbe essere un nostro cinema comico, e quale posto potrebbe avere in esso Macario. […] Oggi Macario è un po’ stanco. Stanco di avere dei successi qualunque, stanco, forse, di essere il solito Macario. […] Basterebbe che soggettisti e sceneggiatori sapessero imbastirgli un personaggio, almeno un tipo e l’attore risponderebbe. Invece gli fanno fare le solite buffonatelle generiche, senza pretese, quasi anonime: composte di scampoli di rivista, di cascami di giornali umoristici, di trucioli di barzellette; e il solito gioco è fatto. Eppure, in questo pupazzetto ciondoloni, in questo volto dai facili enormi stupori, e dalle facilissime piccole malizie, il tipo si delineerebbe quasi compiuto. Un po’ Gianduia, un po’ Gelindo, ma soprattutto il nostrano finto tonto» (“La Stampa”, 15.1.1950).
«Un altro film torinese della serie Macario, Carlo Ninchi, col regista Borghesio; ma particolarmente fiacco e povero di trovate, anche se assai movimentato» (p.g., “lUnità”, 17.1.1950).
«È un lavoro di nessun valore artistico, che si propone soltanto di far ridere, e moralmente non costituisce uno spettacolo adatto ad un pubblico giovanile» (“La Rivista del Cinematografo” n. 1, gennaio 1950).