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Uccelli mendichi, uccelli d’amore, uccelli perduti
Italia, 1993, Super8, 50', Colore
Regia Tonino De Bernardi
Soggetto Tonino De Bernardi
Sceneggiatura Tonino De Bernardi
Fotografia Tonino De Bernardi
Interpreti Branca De Camargo, Ricardo Nespoli, Joel Barcelos, Caterina Kröger, Gilda Postiglione, Domenico Castaldo , Silvia Iannazzo, Carlotta Oddone, Enrica Brizzi
Produzione Tonino De Bernardi
Note Film muto da proiettare su due schermi con accompagnamento musicale in sala eseguito da un gruppo classico (pianoforte e voce) e un gruppo free (percussioni, voce e strumenti etnici).
Sinossi
«Uccelli che non sono uccelli, si cercano, non si trovano, si rifiutano, si perdono, senza tregua (Uccelli perduti). Qualcuno mendica uno sguardo, un gesto, una parola che non può venire perché questi uccelli sono muti (Uccelli mendichi). Lei dà una carezza a lui, poi si volta e accarezza l’altra, la quale si rivolge a un’altra ancora. Questa accarezza lui che si gira verso un altro lui, il quale però sta con una lei che va da un altro il quale viene portato via da un altro ancora, ma interviene una lei che si spartisce tra due: e alla fine tre vogliono loro due (Uccelli d’amore). Uccelli mendichi vorrebbe ispirarsi alla vita, ma un film non può dare che una pallida idea della vita, e allora tanto vale scavalcarla e andare oltre, chissà dove. Continua il film della ricerca e dell’utopia, dopo Uccelli di terra e Uccelli che vanno. Utopia del cinema e del mondo; ricerca di sé e di un tutto. La vita in forma di ballata è come il fiume che va, con me e con gli altri: io dissociato, fuori, perduto. Continua la mia particolare “Enciclopedia degli Uccelli”» (T. De Bernardi, in S. Francia di Celle, S. Toffetti, Dalle lontane province. Il cinema di Tonino De Bernardi, Lindau, Torino, 1995).
Dichiarazioni
«A me succede di entrare in una costellazione e per un po’ rimango lì, non so neanche come l’ho trovata. Facevo una catalogazione di uccelli e non c’era neanche un uccello nel film, gli uccelli erano solo le persone. Era un modo di esplorare la realtà attraverso una certa angolazione, ricreandola. Non ho mai badato o cercato di badare al cinema che facevo, ero coscientissimo di far cinema, anzi molto attento, ma non era mai qualcosa che potesse limitare una mia ricerca, una mia indagine, un mio andare. Per me il cinema doveva al massimo puntualizzare il punto in cui ero arrivato, o da cui potevo partire. Io sono un segno d’aria e gli uccelli sono creature d’aria, allora a me interessa molto il volo, spiccare dei voli, e teoricamente gli uccelli non hanno limiti. Mi piaceva vedere l’umanità così, e nello stesso tempo dare dei nomi: Uccelli che vanno, Uccelli desiderio, Uccelli mendichi, perché mendicano qualcosa… allora chiedevo a tutti di mettersi con la mano che chiedeva. Nello stesso tempo era una follia, perché chiedevo agli altri di comunicare attraverso la mia follia» (T. De Bernardi, dichiarazione inedita, 13.9.2007).
«Basta un primo piano, uno sguardo, il viso di Giulia De Bernardi, Giulietta, negli Uccelli, che distilla quanto di più nascosto (probabilmente) esiste in alcune zone di realtà, con una forza gigantesca nonostante il corpo minuto, da vero uccellino. Ecco, la paura arriva da lì. È quel malessere che serpeggia ovunque, identificato, vivisezionato, senza temere di guardare dentro, a sé come agli altri. E proprio la “realtà” si concretizza pian piano più attuale che mai; dolore, sofferenza, angoscia, solitudine, parole che non hanno più un significato, diventano figure concrete, scritte con le armi della poesia, e basta poco per leggerle, appena il coraggio di non tirarsi indietro…[…] È la condizione dell’esistenza umana, la tensione mai risolta (e chissà se mai risolvibile) tra voler essere qui e altrove (come recita un bellissimo quadro di Gilbert & George), la lotta tra le apparenze, i ruoli, il rischio (l’obbligo?) di venir catalogati, “rinchiusi”, appunto, dentro a uno spazio unico nel quale lasciar scorrere tutta la vita. È il gioco infinito delle possibilità, lo scarto del sentimento, del desiderio. In particolare Uccelli mendichi, uccelli d’amore, uccelli perduti è una ballata sugli affetti e sul destino, sul bisogno disperato di tenerezza e sulle delusioni, i tradimenti, le gelosie, i nuovi incontri, tutta l’articolazione complessa delle relazioni amorose che sono in continua trasformazione. Con gli Uccelli, poi, Tonino torna al cinema totale, c’è un doppio schermo, ci sono una cantante, un pianista e un accordeonista (e la presenza “fisica” di qualcuno è una novità rispetto alle sperimentazioni iniziali: “Allora usavo un giradischi o in uno degli schermi c’era qualcuno che diceva qualcosa, ma non cantava. Comunque l’intenzione era sempre che i due spazi interagissero”); l’evento è totale, ancora una volta caparbia resistenza alla semplificazione (“Ho ripreso la tecnica dei miei primi film. Perché Uccelli è un film muto. E poi siccome il cinema è sempre più diventato un fatto speciale, con la TV e tutto il resto, porto questa sua caratteristica all’estremo”)» (C. Piccino, in S. Francia di Celle, S. Toffetti, Dalle lontane province. Il cinema di Tonino De Bernardi, Lindau, Torino, 1995).
«Uccelli che vanno e Uccelli mendichi utilizzano la musica dal vivo, sia su spartito, sia improvvisata durante la proiezione. Obiettivo: ridurre il ruolo di riproduzione meccanica inerente a ogni produzione cinematografica. Amplificare l’emozione. Prima della proiezione, il cineasta sta lì, piccolo, sorridente, modesto davanti al suo pubblico: “Bisogna che aspettiate un attimo – si scusa – perché quello che state per vedere non è un cinema normale”. Lo spettacolo comincia. Uccelli mendichi. Due proiettori da 16 mm lanciano le loro immagini una accanto all’altra. Schermo doppio. Due gruppi di musicisti suonano ciascuno al suo turno. A sinistra gli improvvisatori, fisarmonica, sax (straordinario) e percussioni. A destra il classico, Schubert, Mozart, un piano verticale, il pianista, che è anche tenore, e un soprano. Con i capelli neri» (E. Waintrop, “Libération”, 12/13.02.1994).
«Uccelli che vanno e Uccelli mendichi, due film girati in 16mm in bianco e nero, che De Bernardi mostra nella stagione 1993/94, spuntano ancora fuori dal registro utopistico dell’avanguardia» (E. Waintrop, in S. Francia di Celle, S. Toffetti, Dalle lontane province. Il cinema di Tonino De Bernardi, Lindau, Torino, 1995).
Scheda a cura di Matteo Pollone
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