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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Cinema muto



Il fuoco
Italia, 1915, 35mm, B/N

Altri titoli: Le feu, El fuego, O fogo, Elden

Regia
Giovanni Pastrone

Soggetto
Giovanni Pastrone

Sceneggiatura
Giovanni Pastrone, Febo Mari

Fotografia
Segundo de Chomón

Interpreti
Febo Mari (il pittore Mario Alberti), Pina Menichelli (la poetessa), Felice Minotti



Produzione
Itala Film, Torino

Note
Visto censura n. 10.838 del 8.12.1915; 1.100 metri.
 
Il film è composto da tre parti: La favilla, La vampa, La cenere.
Giovanni Pastrone firmò il film con lo pseudonimo di Piero Fosco; per alcuni anni vennero avanzate diverse ipotesi sulla reale identità del “misterioso” regista che si celava dietro tale nome d’arte.
Prima di autorizzare la distribuzione in sala, la censura richiese alcuni tagli, che vennero effettuati. Ottenuto il visto di censura, dopo alcuni giorni di regolare programmazione il film venne sequestrato per ordine del Prefetto di Arezzo. Il provvedimento, aspramente criticato dai mezzi d’informazione, venne revocato dopo qualche giorno e Il fuoco ottenne in Italia un enorme successo, trasformando Pina Menichelli in una diva.
Durante la Prima guerra mondiale, The Diamond Film Syndacate organizzò una proiezione speciale del film a favore della Croce Rossa e dei Pro-Italia Funds, che si tenne presso il West End Cinema Theatre di Londra.
 
Copie conservate presso: Cinémathèque Royale (Bruxelles); Cineteca Nazionale (Roma); Museo Nazionale del Cinema (Torino); Museum of Modern Art (New York); Nederlands Filmmuseum (Amsterdam).
Una copia restaurata del film della durata di 55 minuti (35mm, 1.100 m) è stata proiettata nel 1991 al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, con didascalie in italiano e accompagnamento al pianoforte del Maestro Stefan Ram.
Le didascalie, i nulla osta e alcuni quaderni di produzione relativi al film e alla produzione dell’Itala Film sono conservati presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino.
 
Alcune sequenze del film sono state inserite in Dopo mezzanotte di Davide Ferrario (Italia 2003).




Sinossi
Affascinato da una misteriosa poetessa conosciuta fortuitamente mentre dipinge in riva a un lago, un giovane e promettente pittore abbandona la propria casa e la propria arte, preso dal desiderio di conoscere meglio quella che considera la sua nuova musa e di farle il ritratto. Condotto da costei in un castello, vive in compagnia della donna momenti appassionati e nel ritrarla senza veli crea il capolavoro destinato a regalargli fama e successo. Ma l’idillio è di breve durata: dopo aver somministrato all’uomo una bevanda drogata, la poetessa l’abbandona senza dargli spiegazioni portando con sé il dipinto. Il pittore non si dà pace dell’accaduto e perde ogni ispirazione finché, avendo scoperto che la donna amata è in realtà l’annoiata moglie di un nobile e che lui è stato solo l’ennesimo divertimento di breve durata, impazzisce per la disperazione.





«Il mistero del Fuoco di Piero Fosco, il quale (ce ne informa una elegante didascalia sul principio della film) «vigilò all’esecuzione», non è certamente impenetrabile come quelli della Santissima Trinità. I giornali cinematografici, quando si trattò di vendere la pellicola, si diedero un gran da fare per spargere ai quattro venti la voce che Piero Fosco e Guido Gozzano sono la stessa persona. [...] Il soggetto della film non è né nuovo, né peregrino: ma è svolto con una finezza di concezione poco consueta ai teatri cinematografici. Anche l’allestimento dell’«Itala Films» merita grandi elogi. I paesaggi ricercati con cura e scelti con gusto; gl’interni eleganti e non sovraccarichi (deplorevole mania dei metteurs en scène); non i soliti edifici grandiosi e moderni, ma un vecchio castello dalle svelte linee bizzarre. E l’interpretazione delle due parti principali (lui e lei) deve aver soddisfatto lo spettatore più esigente: tanto per ciò che riguarda Febo Mari, attore espressivo, di simpatica figura, quanto per parte di Pina Menichelli, mirabile di forme e in pari tempo adatta a foggiare, nelle poco classiche linee del viso, le sembianze funeree della triste civetta. Se dunque Guido Gozzano ha voluto, nel Fuoco, darci un saggio della sua capacità di soggettista cinematografico e di vigilatore dell’esecuzione, non ha certo mancato al fine. [...] Se Guido Gozzano, anziché mascherarsi con lo pseudonimo discutibilmente felice di Piero Fosco, avesse sentito il desiderio di mettere il suo nome di buon poeta sull’opera cinematografica da lui concepita e vigilata, non avremmo avuto forse nel soggetto qualche scena di cattivo gusto (quella, ad esempio, di lei che respinge lui con modi di serva maleducata); il pittore sarebbe risultato un poco meno sempliciotto, e lo scioglimento finale avrebbe vestita maggiore spontaneità e maggiore verisimiglianza. Perchè Guido Gozzano, meglio di Piero Fosco, avrebbe sentita la propria responsabilità d’artista: che non ha diritto, quando scrive per il cinematografo, di contaminare la propria rispettabilità, e di maltrattare l’arte e la vita» (Acer, “Cinemagraf”, a. I, n. 11, 22.61916).
 
«Basta ricordare un esempio per stabilire che il buon lavoro può trovare nel mercato un’offerta assai elevata, anche senza i soliti coefficienti commerciali di sovraprezzo. Il Fuoco, della Itala. Era questo il primo gran lavoro della Menichelli. Pastrone, il più geniale dei direttori in Italia, non aveva mai pubblicato il suo nome sul frontespizio di un film, ed il soggetto del Fuoco è attribuito ad un Piero Fosco, sino ad ieri ignoto e che anche oggi non sappiamo esattamente chi effettivamente egli sia. Ma il lavoro era talmente originale e diverso dagli altri, era così bene interpretato, così bene svolto, così perfettamente eseguito che esso ottenne dal mercato la valutazione che cento altri film, di autori illustri, con titoli celebri, eseguiti dalle attrici più ricercate, non avevano ottenuta» (“Film”, a. III, n. 30, 10.10.1916.
 
«Fuoco e Tigre reale! Due simboli di nuovo. Il primo della rivelazione di un campo inesplorato, di una miniera preziosissima, l’altro la enunciazione del vero modello d’adattamento cinematografico» (A. Menini, “Film”, a. III, n. 33, 3.11.1916)
 
«Ed ecco che, d’improvviso, le nere ribalte videro farsi innanzi un uomo e con lui un’opera che, fracassando ogni formula consueta e stritolando ogni cliché abituale, portavano di colpo la cinematografia verso altezze sconosciute: Piero Fosco. Il Fuoco. Gli schermi conobbero subito una luce di poesia alla quale non erano adusati. Il pubblico ne fu conquistato e la grande massa dei cinematografisti sospese per un momento il suo chiacchierio per volgere lo sguardo, attonitamente, là donde un film parlava al suo cuore e alla sua fantasia con una eloquenza che aveva voci quasi apocalittiche. Il silenzio della novissima arte diventò supremamente fascinante. E il nome dell’artefice che aveva dato finalmente alla cinematografia un così umano contenuto di nobiltà e di grandezza poetica corse per tutte le strade d’Italia e varcò le frontiere come un campione di battaglia vinta. Piero Fosco aveva, infatti, vinto una battaglia. La prima. E la più difficile» (G. Lega, “La Rivista Cinematografica”, a. IX, n. 18, 30.9.1928).
 
«La Menichelli, forse più della Borelli, fu in quegli anni l’attrice che rappresentò il simbolo stesso della passionalità [...] scrisse nel 1932 Salvador Dalì parole rivelatrici, proprio a proposito del Fuoco: “In uno di quei film intitolato Il fuoco era possibile vedere Pina Menichelli completamente nuda in un costume di piume che rappresentava un gufo, al solo esplicito scopo di giustificare, al tramonto, un simbolico paragone, molto rudimentale e deplorevole, fra il gufo, da lei incarnato, e un fuoco – quello dell’amore – che ella aveva appena finito di accendere, con le sue fatali mani, dinanzi agli occhi devastati, smisuratamente cerchiati di indiscutibile onanismo, di Gustavo Serena, il quale a partire da quell’istante, non compiva altri movimenti, tranne quelli indispensabili, automatici e deprimenti, che gli permettevano la discesa progressiva e a scatti nell’acqua del lago, fino al completo espandersi dei cerchi concentrici e abituali che ristabilivano la calma delle acque, dopo il suicidio, apologo del film”» (G. Rondolino, I giorni di Cabiria, Lindau, Torino, 1993).
 
«Giovanni Pastrone [...] inventa un set dove l'attrice è materia di continua trasformazione: Il fuoco (1915) elabora un complesso sistema di apparenze dell'attrice grazie alle illuminazioni (ora di scorcio, ora diffuse), all'abbigliamento (dai succinti lamé ai mantelli avvolgenti), al trucco (fortemente marcato sulle labbra e attorno agli occhi, e completato dal famoso cappello a testa di gufo), alla recitazione (volutamente forzata e sopra le righe), e naturalmente ai piani di ripresa e ai movimenti di macchina che differenziano frequentemente il corpo della diva. Il fuoco rimane come massimo esempio dell'intelligenza plastica di Pastrone applicata all'immagine divistica: lo stesso regista che in Cabina (1914) aveva dimensionato gli attori a pura azione (in funzione antidivistica) e li aveva completamente votati al procedere inarrestabile del racconto, nel Fuoco rende centrale l'idea di un corpo e di un volto che, abilmente manipolati, sono in grado di governare essi stessi l'andamento narrativo» (C. Camerini, in R. Redi, a cura, Cinema italiano muto 1905-1916, CNC Edizioni, Roma, 1991).
 


Scheda a cura di
Azzurra Camoglio

Persone / Istituzioni
Giovanni Pastrone
Segundo de Chomón
Febo Mari
Pina Menichelli
Felice Minotti


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