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Carlo Fruttero
Lungo il peregrinare nel quartiere in cui abitavo ricordo un fisso ch’era situato in fondo a Via Luisa del Carretto: un enorme capannone di ferro e vetro. Con mia madre, mio padre, mia nonna ci fermavamo a guardarlo e loro mi dicevano: “Ecco, vedi, quello lì è il capannone della Fert”. E mi spiegavano che c’erano stati gli studi, abbandonati negli anni Trenta, di quello che fu il cinema torinese preguerra. Era un edificio grande, enorme, impressionante nella visione di un bambino. Io lo guardavo con stupore e i miei familiari aggiungevano: “Qui si facevano i film”. E raccontavano. Così io imparavo il lessico di quel cinema, i nomi degli attori che furono celebri: la Borelli, Maciste che abitava nel nostro stesso quartiere. Nel ricordo di mia madre, quel nome, quella figura d’attore che faceva il gigante, era appunto legato all’immagine di un omone che lei vedeva passare spesso perché nostro vicino di casa.
Non so quali fantasie o suggestioni suscitassero in un bambino quei nomi e quelle memorie. So però che quando fu il momento di andare al cinema, scoprii che quei nomi riempivano i miei ricordi. Così, a esempio, Za la Mort mi sì presentò come il ricordo sonoro di mio padre che diceva: “Za la Mort”, ridacchiando. E ridacchiando, con ironia, riandava al tempo in cui lo prendeva sul serio e correva al cinema contento di vederlo. (…) La donna nuda noi l’abbiamo vista al cinema, nella realtà era interdetta. Una volta scoprimmo in un cinema di via Po, quello che ora si chiama King Kong e che allora si chiamava Po, un vecchio Maciste all’inferno che era pieno di penitenti, di condannati nudi. Era un film muto, passato tra le maglie di una censura non attivissima, e noi lo vedemmo tante volte per tutti i giorni che durò la programmazione. (…) Io mi spiego e non mi spiego come i torinesi, proprio i torinesi, abbiano potuto investire, all’inizio del secolo e quando la cosa costituiva una scommessa, nel cinema. Torino è, come si sa, una città regolare, ordinata, sobria; ma ha sempre avuto un suo ramo bizzarro. E’ una terra che pur così severa, militare, sobria, ha prodotto, per contrasto, un uomo come Vittorio Alfieri: uomo dalla follia totale, grandissimo scrittore, grandissimo autobiografo. Basterebbe leggere la vita di Alfieri per avere un’idea del tipo di alchimia che c’è in un torinese (certo, lui è astigiano, ma faceva parte dell’aristocrazia torinese). Un misto di ribellione, stranezza, bizzarria, avventurosità.
Si dirà: nello stesso tempo la Fiat produceva automobili, che sembrano essere cose più solide, più “concrete” di un film. E’ vero, ma furono molti aristoctatici di vecchie famiglie torinesi a crederci e a finanziare l’industria dell’automobile. Di qualcosa cioè che, all’inizio, non dovette richiedere meno audacia e meno piacere del rischio di quanto non ne richiedesse l’industria del cinema.
Immagino che la città sia definibile per questo suo tratto: tutto vi è tranquillo, piano, sobrio, ma, ogni tanto, un lampo di stranezza vi interviene. Anche Salgari è un tale lampo di bizzaria; e di bizzarria contradditoria dello stesso tipo del cinema. Pensiamo a questo omino che si mette a descrivere un universo esotico che non ha nemmeno visto di lontano; e lo descrive da Torino - e non da Milano o Roma. Ci deve essere un nesso, probabilmente, con il cinema.
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