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Federico Fellini
Un dei miei primi ricordi è Maciste all’inferno. Mi pare persino che sia il mio primo ricordo in assoluto. Ero molto piccolo. Ero in braccio a mio padre, che stava in piedi (il cinema era affollato), quindi dovevo avere un peso insopportabile, non potevo avere più di sei sette anni. Era il cinema Fulgor, non il migliore di Rimini: come i primi cinematografi aveva ancora del baraccone, ricordava il palazzo delle streghe del Luna Park. La fiumana di gente, le urla, il richiamarsi a gran voce, l’aria sempre un po’ minacciosa, almeno per un bambino; e poi il buio, il fumo, quello stare in piedi come in chiesa, come alla stazione, quelle attese sempre un pochino inquietanti, magari anche per partenze che non desideri. Quel cinemetto l’ho raccontato in tanti miei film: mi pare che si pagasse nove soldi proprio sotto lo schermo, dove c’erano alcune panche occupate subito dalla marmaglia che si azzuffava, poi c’erano i “distinti”, a una lira. Eccolo, il mio primo film: in braccio a mio padre, con gli occhi un po’ brucianti, perché ogni tanto, per attutire gli effetti del fumo delle sigarette, la maschera spandeva nell’aria, con quelle pompette meccaniche con cui si dava il flit alle mosche, un profumo dolciastro, acre. Mi ricordo questo saloncino buio, fumoso, con quest’odore pungente e sullo schermo giallastro un omaccione con una pelle di capra che gli cingeva i fianchi, molto potente di spalle - molto più tardi ho saputo che si chiamava Bartolomeo Pagano - con gli occhi bistrati, le fiamme che lo lambivano intorno, perché si trovava all’inferno, e davanti a lui delle donnone anche loro bistratissime, con ciglia a ventaglio, che lo guardavano con occhi fiammeggianti. Quell’immagine mi è rimasta impressa nella memoria. Tante volte, scherzando, dico che tento sempre di rifare quel film, che tutti i film che faccio sono la ripetizione di Maciste all’inferno.
Non sapevo cos’era. Non lo collegavo nemmeno al fatto di stare al cinema. È proprio un frammento isolato, separato, della memoria emozionale. Solo quell’immagine, quel fotogramma. Tutto il resto del film non lo ricordo. Forse poi mio padre mi ha messo giù, e sono scomparso fra i pantaloni e le giacche della gente che stava in piedi. Ricordo, violentemente, solo questo: buio fumo odore pizzicante, e lassù, in alto, l’immagine di quell’omone nerboruto, corpulento. Maciste, tagliato alle ginocchia, e, in fondo, il fotogramma tutto fiammeggiante (ai piedi di Maciste dovevano passare dei tubi che portavano la benzina là in fondo, per l’incendio, ma il trucco l’ho capito molto dopo). Un antro. Un trono, mi pare. Una donnona con i seni accolti da una specie di spirale a serpente, con grandi occhi di nerofumo, bianchi come quelli dei leoni, che saettava, dardeggiava occhiate concupiscenti verso Maciste. Maciste, oltretutto, assomigliava molto a un vetturino, un fiaccheraio che stava sempre alla stazione, sulla sua carrozzella, e che noi ragazzini chiamavamo il vetturino “madonna” che sarebbe come dire un cristone, un cristaccio. L’ho messo in Amarcord, quel vetturino. Del resto, con sua grande soddisfazione, gli avevano cambiato il nome: da vetturino “madonna” passò al soprannome di Maciste.
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