Spesso grazie a semplici coincidenze e a dei grandi amici che mi hanno spinto a lanciarmi in queste imprese, mi sono trovato a seguire da vicino degli eventi che probabilmente hanno fatto in qualche modo la storia, anche se una storia a parte, quella del movimento lgbt internazionale. La marcia di Poznan nel 2006, dove per l’ultima volta dei poliziotti polacchi hanno potuto aggredire e arrestare dei manifestanti gay e rimanere impuniti. Il primo tragico tentativo di GayPride russo, nello stesso anno a Mosca. La prima volta in cui un importante gruppo di gay e lesbiche musulmane ha sfilato su di un carro al GayPride londinese. La prima volta in cui un deputato italiano transessuale ha partecipato al GayPride di Istanbul. Il mancato GayPride di Gerusalemme durante il conflitto contro il Libano, dove i manifestanti si sono scontrati nel tentativo di separare i diritti di gay e lesbiche da quelli umani (la pace in Medio Oriente). Dopo aver sperimentato diversi modi per raccontare, diffondere, spiegare anche a me stesso questa lunga serie di eventi, attraverso il giornalismo, la tv e la radio, il passaggio al documentario è stato naturale. Nel caso specifico, una compatta è stato il mezzo più adatto a rappresentare una visione ingenua e incantata del mio primo approccio al Medio Oriente, descritto attraverso gli stati d’animo che gli intervistati non hanno avuto paura di esprimere di fronte ad una telecamera così piccola. Durante queste esperienze, e tra una sosta e l’altra, mi sono avvicinato ad alcune persone che hanno creduto in me con una forza e una certezza che continua a stupirmi - primo fra tutti, Gavin Hallier. L’appartamento di Beirut è un luogo anche immaginario che ha coinvolto molto profondamente tutti loro, ed altro non sarebbe potuto nascere se non qualcosa di buono.