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Giuseppe De Santis
Subivo così tanto il fascino di Gualino che avevo persino timore ad andare da lui, perché dicevo: se mi chiede qualcosa poi è difficile che riesca a dirgli di no. Una sola volta ebbi l’occasione di dirgli di no: a proposito di Riso amaro. Il film contiene una sequenza molto difficile e complessa, una sequenza di grande denuncia delle condizioni nelle quali le mondine lavoravano nelle risaie, e cioè quella dell’aborto che la ragazza deve fare nell’acqua. Questa sequenza impensieriva Gualino a causa della censura, e anche del pubblico, e mi chiese di toglierla. Io mi rifiutai dicendo: «Questo mai, perché questa sequenza rappresenta anzi uno dei motivi per cui ho fatto il film». E come lo conquistai? Proprio grazie al suo amore per le icone, per i pittori primitivi, per i “fondi oro”. Perché tutta la sequenza è quasi strutturata come una pittura giottesca: le figure sono stilizzate, cantano, si atteggiano. E su questa base, gli feci osservare che non c’era niente di morboso, che tutto era visto come un grande rito pagano, un rito che diventava a suo modo anche religioso. Lo conquistai culturalmente alla mia idea e la sequenza non fu tagliata.
Eravamo nel 1947, data importante. I governi dell’Unità nazionale si rompono. Comunisti e socialisti vengono buttati fuori dal governo. Seguiranno solo governi di destra o centrodestra. Già nell’anno in cui giro Riso amaro, rispetto alla concezione del film, sono con un anno di ritardo. L’ideologia della solidarietà delle mondine che salvano la risaia non è la loro, ma dei padroni: è un’ideologia, direi, che appartiene a una forza rivoluzionaria, alla Resistenza. Durante la Resistenza gli operai hanno salvato le fabbriche. Hanno ritenuto giusto che la proprietà venisse salvata perché era il loro futuro. Non dimentichiamo che il 1948, che io ho passato in risaia, è un anno importante: il 14 luglio è il giorno dell’attentato a Togliatti, mentre usciva dal parlamento italiano. Ci fu dunque in Italia un momento assai grave e pericoloso. Si temeva che i socialisti, molto forti in quel momento, potessero creare grandi scioperi, che a loro volta avrebbero potuto degenerare nella guerra civile. Io mi ricordo che quel giorno abbiamo sospeso la lavorazione del film e con tutta la troupe (anche la Mangano venne con noi) siamo andati a Vercelli, la città più vicina alla risaia. La sento ancora nelle orecchie questa città di grossi agrari della Padania con i gabinetti che si sentivano gorgogliare. C’era molta paura. Continuavamo a camminare e sentivamo questi sciacquoni. Era un momento molto grave. Lasciatemelo dire: i comunisti e i socialisti allora si comportarono molto bene perché non accadde nulla di grave. Tutto ritornò alla normalità. Noi riprendemmo il lavoro. Questo mio film lo devo a questo nostro grande Paese anche per le sue contraddizioni così straordinarie da renderlo anomalo: io ho avuto la risaia solo perché Giovanni Agnelli, dunque la Fiat, mi concesse l’autorizzazione a girare su una loro proprietà Riso amaro. Tutti gli agrari non mi diedero il permesso perché temevano la cornice di denuncia del film. Direi che Agnelli si dimostrò più intelligente degli altri perché capì che non era un film che poteva cambiare la storia d’Italia. In conclusione i rapporti con la città non sono stati molto simpatici: solo con alcuni operai che lavoravano in cascina avevo relazioni molto divertenti e molto intense.
in S. Toffetti (a cura di), Rosso fuoco. Il cinema di Giuseppe De Santis, Lindau, Torino, 1996.
Collegamenti Film | titolo | regia | data | note | Riso amaro | Giuseppe De Santis | 1949 | Italia, 35mm, 100', B/N |
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