Regia Mario Monicelli
Soggetto dal racconto omonimo di Giulio Cesare Croce
Sceneggiatura Leo Benvenuti, Suso Cecchi D’Amico, Piero De Bernardi, Mario Monicelli
Fotografia Camillo Bazzoni
Musica originale Nicola Piovani
Montaggio Ruggero Mastroianni
Effetti speciali Giovanni Corridori
Scenografia Lorenzo Baraldi
Costumi Gianna Gissi
Aiuto regia Amanzio Todini
Interpreti Ugo Tognazzi (Bertoldo), Lello Arena (re Alboino), Maurizio Nichetti (Bertoldino), Alberto Sordi (fra’ Cipolla da Frosolone), Annabella Schiavone (Marcolfa), Carlo Bagno (ciambellano), Pamela Denise Roberts (regina Magonia), Margherita Pace (Meneghina), Isabelle Illiers (Anatrude), Gigi Bonos (eunuco), Jole Silvani (ostessa), Donald Michael Stumpf (Ruperzio), Pietro Zardini (oste), Mario Zazza (pretino), Fiorella Bettoja (nutrice)
Produzione Luigi e Aurelio De Laurentiis per Filmauro
Distribuzione Gaumont
Note Colore: Technicolor; altri interpreti: Franco Adducci (grassone), Aristide Caporale (mendicante cieco), Michela Caruso (Clara), Cecilia Cerocchi (Lorenzia), Carlo Colombardo (Rosso Malpelo), Amelia Del Frate (dama), Rosa Fanali (dama), Edoardo Florio (Magister Medicorum), Giuseppe Terranova (cancelliere), Patrizia La Fonte, Vanessa Vitale; doppiatrice di Pamela Denise Roberts: Anna Miserocchi; titoli: Guido Manuli.
Locations: Forte di Exilles, Val di Susa (TO), Marano Lagunare (UD), Cappadocia (Turchia).
Sinossi
Diversi episodi si susseguono alla corte del re Alboino, in Italia nell’anno Mille: il contadino burlone Bertoldo alterna argute frecciate e preziosi consigli al suo re, il suo imbranatissimo figlio Bertoldino compie scempiaggini di tutti i tipi, mentre fra' Cipolla da Frosolone organizza truffe e imbrogli.
Dichiarazioni
«Avevo letto fin da ragazzo il racconto di Croce Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Mi piaceva l'ambiente: la capanna miserabile di Bertoldo, la povertà dei contadini, da una parte, e l'ambiente della corte regale dall'altro, così immaginifico. L'uno più alla Brueghel, l'altro alla Perrault. Mi piaceva il rapporto che s'instaura tra il potere e il cittadino comune in quel libro. [...] Dal punto di vista delle immagini volevo fare qualcosa che fosse privo di prospettiva, come in certi dipinti precedenti Paolo Uccello, con tutti i rapporti cambiati tra personaggi e quello che c'è intorno. Volevo dargli quel tono favolistico semplice ed elementare proprio della favolistica italiana, che è molto bella e a cui non siamo abituati» (M. Monicelli, L'arte della commedia, a cura di Lorenzo Codelli, Dedalo, Bari, 1986).
«Film come questo Bertoldo [...] oggi paiono decisamente fuori tempo. In bene, non in male. Regalano bei momenti di comicità, conoscono il segreto di far ridere; ma in realtà parlano il linguaggio della nostalgia, e in qualche modo offrono un saggio di com'era quel cinema perduto che oggi praticamente in Italia nessuno nemmeno ricerca più. Così quando il povero Bertoldo, rivestito da cortigiano e fatto nobile da re Alboino, se ne muore per non poter mangiar rape e fagioli, Monicelli accompagna il suo eroe verso l'ultimo viaggio lasciando intendere che con lui non scompare solo la maschera del contadino astuto e malizioso, ma si chiude (per sempre? o forse è già morta da tempo) la tradizione gloriosa di una secolare arte del ridere. Celebrando così l'ennesimo funerale (ricordate Amici miei uno e due?) di queste sue ultime stagioni» (R. Polese, “La Nazione”, 23.12.1984).
«Partendo dalla fortunata e notissima opera di Giulio Cesare Croce, e arricchendola con intrusioni talora "colte" (il fra Cipolla di Sordi è trasportato di peso dal Decameron), il regista toscano mette questa volta in scena le vicende del saggio e arguto popolano Bertoldo, che funziona in qualche modo da personaggio speculare rispetto al "cavaliere" al quale ha dato indimenticabile vita Vittorio Gassman, tutto permeato da un tragicomico stridore tra nobiltà di aspirazioni e incapacità a realizzarle. Quasi obbligala risultava la scelta di Ugo Tognazzi come protagonista, così come la già sperimentata koiné linguistica (l’attore cremonese che parla ovviamente lombardo, Nichetti veneto, Arena napoletano, Sordi ciociaro, ecc.) garantiva la continuità con una frammentazione "regionale" che è figlia della commedia di costume. Purtroppo Monicelli e i suoi sceneggiatori (tanti, e del calibro di Leo Benvenuti, Piero De' Bernardi, e Suso Cecchi D'amico) si sono poi pigramente affidati ai binari di un fin troppo facile remake [...]. Così le potenzialità di una "brancaleonizzazione" del racconto dello scrittore emiliano si sono appiattite in una serie di situazioni alla lunga anche noiose, nelle quali la sottigliezza contadina di Bertoldo si veste sgradevolmente di senso comune, fra' Cipolla volge in macchietta la genialità cialtrona del personaggio boccaccesco (per inciso, lo stesso Sordi ci è sembrato pochissimo convinto della sua recitazione), Nichetti e Arena perdono un'occasione "storica" per confrontarsi con parti meno stereotipate di quelle affrontate finora. Non sono quindi sufficienti a salvare il film il ricorso insistito a procedimenti di stilizzazione ben serviti dalle scenografie di Lorenzo Baraldi e dai costumi di Gianna Gissi (Alboino che sembra il re di bastoni, la regina nera e le ancelle in nero, principalmente nell'episodio in cui si atteggiano a Lisistrate, la corte bizantina, peraltro meglio sfruttata nel primo Brancaleone) e l'uso, spiazzante ai limiti dell'onirico, del paesaggio (ci si è spinti addirittura in Cappadocia)» (P. Vecchi, “Cineforum” n. 1, gennaio 1985).
«Terza incarnazione cinematografica del furbacchiotto in cui Giulio Cesare Croce (1550-1609), poligrafo emiliano, raccolse l'antico elogio del villico di cervello fino, portata sullo schermo da Mario Monicelli, come già fecero Giorgio Simonelli nel '36 (interprete Cesco Baseggio) e la coppia Amendola-Maccari nel '54, per far ridere le brigate, ma convogliandovi spunti e umori buffoneschi presi anche da altri novellieri, al fine di tendere omaggio a un motivo gnomico-farsesco largamente popolare. E con un'ambizione: di calare gli elementi realistici, inerenti al personaggio del bifolco, in una cornice fiabesca, sì da sfiorare il grottesco-magico, alludendo nel contempo al conflitto universale fra il misero e il potente col mettere a confronto Bertoldo e Alboino, il re che si compiace e s'indigna della sua irriverenza. Ambientato in luoghi di fantasia (trovati nella laguna di Marano, in Val di Susa e Cappadocia) che vogliono tradurre la diversa condizione sociale dei personaggi, il racconto si snoda attraverso una serie di aneddoti e di burle. [...] Come di recente è accaduto anche per il Dagobert di Dino Risi, il Bertoldo di Monicelli è un film di lusso ma di gracile polpa. Se gli elogi più caldi meritano Camillo Bazzoni, direttore d'una fotografia che dà alle immagini una grande raffinatezza figurativa, lo scenografo Lorenzo Baraldi, al quale si devono ambienti inconsueti e suggestivi, la costumista Gianna Gissi che ha inventato, soprattutto per i bizantini, abiti fantasiosi, e il musicista Nicola Piovani, autore d'un commento simpatico, amare riserve s'hanno a fare sul soggetto e sulla sceneggiatura, a cui hanno collaborato Leo Benvenuti, Suso Cecchi D'Amico, Piero De Bernardi e Mario Monicelli. Il loro solido professionismo, e la regia esperta come sempre di Monicelli, non ci sembra infatti che bastino a ripetere l'esito dell'Armata Brancaleone, al quale il film si ispira anche nella lingua dei dialoghi. L'intenzione di ricreare un Medioevo da burla e di trarre dalla favola una morale buona anche per l'oggi, va perduta in un racconto di scarsa carica vitale, in un pittoresco dialettale con profumi escrementizi, in un formalismo che stilizza la stanchezza d'ispirazione connettiva. Questo Bertoldo è migliore di Dagobert, ma la sua festosità è come rattrappita, non si distende in ilare racconto, sicché il film diverte e istruisce assai meno di quanto si poteva sperare conoscendo l'arguto libretto da cui prende le mosse. Invece di trasfigurare il nocciolo satirico che in quell'ideale trattatello di morale e di pratica di vita è nascosto dietro le sottilissime astuzie di Bertoldo e la scemenza di Bertoldino, il film si lascia perciò godere nella cornice spettacolare, degna del miglior cinema italiano (con qualche eco di Pasolini), e nei timbri comici dei suoi interpreti» (G. Grazzini, “Corriere della Sera”, 22.12.1984).
«Mario Monicelli, sceneggiando [...] e dirigendo questo nuovo connubio tra cinema e letteratura, non ha tenuto alcun conto dell'unica altra trasposizione sul grande schermo dell'opera letteraria di Giulio Cesare Croce, realizzata da Mario Amendola nel 1954 “un'operina da avanspettacolo”, ma ha colto, con un'intelligente operazione, lo spirito autentico del fabbro bolognese vissuto nella seconda metà del '500 ed agli inizi del '600; e lo ha colto proprio nella misura in cui non si è attenuto rigorosamente alle Sottilissime astuzie di Bertoldo ed alle Piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino, ma le ha compiute e vivificate ulteriormente con spunti narrativi e personaggi, come quello, ad esempio, di fra' Cipolla, tratti dal fondo romanesco di narrativa popolare che, in certi casi storicamente, in altri idealmente (per ragioni geografiche e/o cronologiche), sta dietro e alla base dell'opera di Croce: Boccaccio, Machiavelli, Le Mille e una notte, Apuleio, Aretino, Aristofane, Chaucer, e via discorrendo. Componenti, per altro, onestamente e rigorosamente dichiarate nei titoli di coda. Tuttavia, il Bertoldo di Monicelli non è riducibile ad un mero esempio di pregevole critica storica-letteraria o filologica (seppur sui generis), in quanto, se è vero che “la morale del libro è la rassegnazione a un mondo che non è possibile modificare” (come ha osservato Giuseppe Petronio), allora la morale che, a nostro avviso, è lecito trarre dai film, con particolare riferimento all'innocente e, a suo modo (e senza esagerare), rivoluzionaria defecazione finale del neonato Cacasenno sul volto del malcapitato re Alboino, è tutto meno che di rassegnazione, bensì possiede una componente eversiva paragonabile, sebbene di entità minore, alle novelle del Decameron o a certi finali delle commedie dell'Aretino (Il marescalco) o di Machiavelli (La mandragola, Clizia)» (E. Zoi, “Cinemasessanta” n. 162, marzo-aprile 1985).
Scheda a cura di Franco Prono
|