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Produzioni Tv |
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Tutto era Fiat
Italia/Francia, 1999, 35mm, 70', B/N e colore
Regia Mimmo Calopresti
Soggetto Mimmo Calopresti
Sceneggiatura Mimmo Calopresti
Fotografia Paolo Ferrari
Montaggio Massimo Fiocchi
Aiuto regia Giovanna Boursier
Produttore esecutivo Bianca Film
Produzione Luc Martin Gousset per Point du Jour, La Sept-Arte, Bianca Film, Rai Cinemafiction
Note Una delle interviste contenute in questo film ha ispirato l'aiuto regista, Giovanna Boursier, a realizzare a sua volta un documentario, Signorina Fiat, centrato su un’ex impiegata della Fiat.
Sinossi
Dieci anni dopo Alla Fiat era così, Calopresti intervista per la televisione i sindacalisti, i dirigenti di fabbrica, gli operai di un tempo e i giovani da poco assunti, i quali espongono i diversi punti di vista su una fabbrica molto diversa da quella tayloristica degli anni Sessanta, e su una città che si è modificata di conseguenza.
Questo documentario, coproduzione tra Italia e Francia, racconta una realtà industriale che negli ultimi anni si è ulteriormente trasformata. Le riprese all’interno degli stabilimenti di Mirafiori (ed è una delle prime volte che accade per un documentario non prodotto dalla stessa Fiat) raccontano una fabbrica in cui l’automazione e l’informatica hanno via via soppiantato il lavoro umano. Questo non impedisce a chi lavora al suo interno di avere molti problemi, che sono però molto diversi da quelli delle generazioni precedenti. Calopresti raccoglie le testimonianze di chi ha lavorato un tempo, di chi ha appena iniziato, dei dirigenti d’azienda e dei sindacalisti, evitando un’impostazione di parte e indagando gli aspetti personali, il vissuto emotivo, operando più sulle domande aperte che sulle risposte preconcette. Insieme, i due documentari riescono a raccontare trent’anni di vita dentro e intorno alla grande fabbrica, una storia che si modifica giorno dopo giorno, cambiando anche il quadro sociale e politico.
Tutto era Fiat è uno dei pochissimi documentari che è stato trasmesso quasi in prima serata sul palinsesto Rai grazie all’intervento di Marco Giusti, il quale si è innamorato del progetto di Calopresti e lo ha sostenuto fino alla messa in onda. Dopo essersi conquistato un posto di rilievo nel lungometraggio con due film che hanno avuto successo non solo in Italia, Mimmo Calopresti ha dimostrato di non aver tradito la sua origine cinematografica, politica e sociale raccontando il “pianeta” Fiat secondo un percorso personale, senza mai comprimere le proprie opinioni ma sapendo anche raccontare quelle degli altri. Il film cerca di rispondere alla domanda: come si può raccontare il ruolo non solo produttivo ma anche sociale, culturale, psicologico che (in positivo o in negativo) la grande fabbrica dell’auto ha avuto per la città di Torino? Un intento tutt’altro che facile.
«La prima immagine di Alberto Sajevo, protagonista de La seconda volta, l'esordio di Mimmo Calopresti, ritrae Nanni Moretti mentre attraversa gli stabilimenti della Fiat a Torino. Sequenze analoghe vengono riproposte oggi alla fine di un viaggio all'interno dello stabilimenti Mirafiori. Evidentemente, come in quella della maggior parte dei torinesi, anche nell'esperienza personale del regista questa fabbrica ha svolto una funzione centrale; tra gli intervistati, non a caso, vi sono anche la madre e il fratello dell'autore. Tutto era Fiat è il titolo di questo documentario e, infatti, la Fiat era tutto per gli operai del secondo dopoguerra. Come i protagonisti di Così ridevano di Gianni Amelio, la maggior parte di questi, immigrati dal sud Italia, ha ricostruito infatti la propria vita all'interno della fabbrica. Sono alcuni di essi, intervistati dallo stesso Calopresti, a raccontare le proprie esperienze: vicende di forte appartenenza ma anche di scontro, fino alle lotte operaie scoppiate a cavallo degli anni Settanta. Un rapporto di amore e odio che, oggi, sembra andato perduto: le testimonianze degli operai giovani dimostrano [...] come la fabbrica sia solo una parte della loro vita. Un lavoro, per certi aspetti anche preferibile ad altri, ma non più una scelta totalizzante: una situazione che, pur con il sorriso sulle labbra, alcuni anziani non riescono ad accettare. Tutte le strade portavano a Mirafiori, oggi non più, e qualcuno si chiede dove porteranno» (A. De Candido e A Roncarelli, www.kultunderground.org).
«Paesaggio urbano e umano intrecciano le loro inestricabili sorti in una congiuntura storica ed economica che nel 1966 raggiunge il suo punto più alto e che da quei momento in avanti entrerà in contraddizione con il suo medesimo sviluppo. In una delle immagini di repertorio utilizzate nello stesso documentario [Tutto era Fiat, N.d.R.], una Fiat 124 taglia l'ideale traguardo dei milione di automezzi prodotti, ma dopo il conseguimento del successo industriale inizia una lenta quanto inesorabile flessione. La situazione cambia e lo stesso teatro che era stato specchio dello stato di benessere conosce i primi momenti di crisi. Torino, storicamente, è la Fiat e nessuna riflessione sulla città può essere condotta compiutamente senza analizzare la necessaria osmosi intercorrente tra i due soggetti. Tutto era Fiat è principalmente questo: un'indagine diacronica sull'esperienza di chi quelle fabbriche le animava con il proprio lavoro, capace tuttavia di delineare, in filigrana, le successive battute d'arresto e la lenta consunzione di una città inevitabilmente congiunta a uno dei suoi motivi primari di esistenza. I due poli opposti dell'analisi di Calopresti - il prima e il dopo, il processo di sviluppo della fabbrica e la sua ristrutturazione, la nascita della nazione e la sua sopravvivenza - sono nelle parole contrapposte di due degli intervistati, in quelle di Maurizio Magnabosco, responsabile dei Personale e Organizzazione della Fiat, e in quelle di Daniele Beraudo, operaio dai 1997. Se il primo, analizzando gli anni dell'immigrazione dai Sud, tratteggia una città in cui i nuovi arrivati, pienamente realizzati da l loro lavoro, vivevano la vita di fabbrica con compiaciuto senso di appartenenza, il secondo, più disincantato - e sicuramente meno coinvolto nella promozione aziendale - parla quasi con indifferenza di "un lavoro come un altro", di una professione apprezzata soprattutto perché capace di garantire svaghi con gli amici e piccoli piaceri personali. Quel legame, quel forte senso di appartenenza che con il trascorrere degli anni, dopo i vari momenti di crisi che l'azienda ha attraversato (le contestazioni e gli scioperi del '69, la cassa integrazione e la "Marcia dei quarantamila", la riduzione d'organico e la progressiva automazione), si è trasformato in consuetudine, in prassi del quotidiano, talvolta in aperta delusione per una dedizione tradita da una ristrutturazione globale che nel bilancio di un'azienda ha sostituito al nome delle persone la voce "disavanzi". La Fiat dei padri - eroi di un tempo che non c'è più, così come sono visti non senza ironia dalle giovani leve - aveva dato vita ad una città fatta di tante anime differenti che si erano tramutate in altrettante piccole formiche operose pronte a lavorare in linea, spesso fiere del loro ruolo e del loro operato, solidali con i colleghi perché immagine di un'unica grande famiglia operaia. Diversa la Torino dei figli, non più semplicemente accolti, ma nati sul posto, inseriti perfettamente nel suo tessuto, pronti alla critica verso la vita in fabbrica e la reificazione marxista (e chapliniana) che ne deriva, messi sotto accusa dai padri per il fatto di essere più egoisti e più disillusi. Un'accusa che probabilmente nasce da un'idealizzazione eccessiva del periodo precedente. Tutto era Fiat s'interrompe su un presente caratterizzato dalla globalizzazione che, perdendo la sua stretta relazione con gli operai residenti in città e nella prima cintura, si rivolge ad altri lavoratori sparsi sull'intero suolo mondiale. E l'eclissi di un'era, la fine dell'interdipendenza tra territorio, fabbrica e comunità operante, lo smarrimento definitivo di una precisa identità che è tuttora alla ricerca di quella in grado di sostituirla. Un addio che prima di essere malinconicamente definitivo fa ancora in tempo ad essere cinicamente tragico, imprimendo una lacerazione profonda sulla realtà operaia cittadina e facendo calare un oscuro sipario sulla speranze di rinascita industriale di un intero territorio. Calopresti registra fedelmente l'ultima ferita sul corpo di una città ormai abituata alla dismissione delle sue strutture, finalmente conscia di non rappresentare più il corpo centrale dello sviluppo, ma di essere per sineddoche una semplice parte di quel tutto che ha preso il nome onnicomprensivo di globalizzazione» (G. Frasca, “Quaderni del CSCI” n. 6, 2010).
Scheda a cura di Vittorio Sclaverani
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