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Lungometraggi |
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Torino nera
Italia/Francia, 1972, 35mm, 93', Colore
Altri titoli: Black Turin, La vengeance du sicilien
Regia Carlo Lizzani
Soggetto Nicola Badalucco, Luciano Vincenzoni
Sceneggiatura Nicola Badalucco, Luciano Vincenzoni
Fotografia Pasqualino De Santis
Operatore Mario Cimini
Musica originale Gianfranco e Giampiero Riverberi, Nicola Di Bari
Montaggio Franco Fraticelli
Scenografia Amedeo Fago
Arredamento ditta “Sormani” (Torino)
Costumi M. Laura Zampacavallo
Trucco Piera Icardi
Aiuto regia Giorgio Gentili
Interpreti Nicola Di Bari (Stefano Mancuso), Bud Spencer (Rosario Rao), Andrea Balestri (Raffaele Rao), Domenico Santoro (Mino Rao), Marcel Bozzuffi (Mariano Fridda), Guido Leontini (maresciallo Coppo), Maria Baxa (Nascarella), Saro Urzì (contrabbandiere di sigarette), Gigi Ballista (avvocato Marinotti), Teodoro Corrà (Ravezza), Vittorio Duse (fotografo), Giovanni Pallavicino, Giovanni Milito, Marcello Di Martire, Françoise Fabian (signora Rao)
Ispettore di produzione Marcello Lizzani, Alfredo Petri
Produttore esecutivo Franco Cancellieri
Produzione De Laurentis International Manufacturing Company, Trianon Productions
Note Girato in Technicolor; assistenti operatori: Giovanni Fiore e Gioacchino Tedeschi.
All’inizio del film, una scritta avverte: “I fatti raccontati in questo film sono realmente accaduti”.
Sinossi
Rosario Rao, immigrato siciliano a Torino, viene ingiustamente incarcerato per un omicidio maturato nell’ambiente dell’edilizia e commesso sotto lo striscione degli Ultras Granata nella curva Maratona dello stadio Comunale di Torino, durante la partita Torino-Roma. I suoi due figlioletti, Mino e Lello, cercano di scagionarlo, aiutati da un giovane avvocato amico di famiglia, Stefano Mancuso. Il loro tentativo si scontra con gli ostacoli frapposti dai veri colpevoli del delitto i quali eliminano tre testimoni e alcune fotografie compromettenti. È lo stesso Rosario Rao che, riuscito in maniera fortunosa a fuggire dalla prigione, uccide Tommaso Fridda, suo capocantiere ed autore dell’assassinio, e Mascara, tirapiedi di Fridda e feritore di Mino; dopodiché, l’uomo si costituisce.
Dichiarazioni
«Esterina […] laureò la Gravina come attrice di grande spessore drammatico e […] promosse a star anche cinematografica - ma con meno fortuna - Modugno, numero uno, allora, della canzone italiana. La sua popolarità era alle stelle. Ricordo che per certe riprese, nel centro di Torino, dovevamo proteggerci dai curiosi e dai fan con i cordoni della polizia. Ma, pur essendo anche un ottimo attore, la fortuna in campo cinematografico non lo avrebbe accompagnato. Poco più di dieci anni dopo girai Torino nera. Un film modesto e di maniera che però offre, più di tanti film girati a Torino, un catalogo di immagini forse preziose, un domani, per studiosi di urbanistica, di costume. Un documento d'epoca, insomma» (C. Lizzani, “TorinoSette – La Stampa”, 1.11.XXX).
«Ispirandomi ad un fatto di cronaca avvenuto in Sicilia, ho voluto raccontare una storia che offrisse contatti con problemi sociali di drammatica attualità: l’emigrazione verso l’industria settentrionale, l’alienazione consumistica, il “racket delle braccia” nell’edilizia. […] Torino offriva l’ambiente umano e sociale più adatto ad una storia di mafia per i suoi vistosi contrasti tra modernità, boom economico-edilizio e metodi tradizionali di sfruttamento operaio» (C. Lizzani, “La Stampa”, 6.10.1972).
Dopo Svegliati e uccidi, Banditi a Milano e Barbagia, Torino nera conclude una quadrilogia “cronachistica” in cui Lizzani ha fuso la spettacolarità del cinema d’azione con istanze di impegno sociale moto evidenti: in quest’ultimo film, infatti, affronta il tema dell’immigrazione meridionale in una città industriale del Nord e quello delle infiltrazioni mafiose tra gli strati sociali più disagiati.
La Torino di Lizzani «non è ovviamente la “città favorevole ai piaceri” di gozzaniana memoria, ma la Torino appunto “nera” degli immigrati, della prostituzione, dei rackets delle braccia; una Torino di bassifondi e senza torinesi (o solo due), e tuttavia configurata per sempiterne linee deamicisiane circa la sagacia dei fanciulli che intendono dimostrare l’innocenza dei babbi e la perseveranza dei buoni cittadini nell’aiutarli.
Un film che prende dal principio alla fine in virtù d’un mestiere compatto e oculatissimo, e la cui parte dimostrativo-polemica può essere brevemente detta (anche perché è un po’ appiccicata): in certe disgraziate ma non rare circostanze l’uomo giusto, assistito da una polizia alquanto plantigrada, è costretto a farsi la legge da sé» (L. Pestelli, “La Stampa”, 6.10.1972). Pertanto vengono denunciate le ingiustizie sociali, viene accusata la mafia, ma il punto d’arrivo del discorso di Lizzani è quello tipico del genere “poliziottesco” italiani degli anni Settanta: l’autodifesa del cittadino che costretto – dall’inerzia i leggi, tribunali e polizia - a trasformarsi in giustiziere.
Tra Borgo Dora, piazza Castello, Porta Nuova, lo scalo ferroviario, le impalcature del Teatro Regio in costruzione, si dipana l’intreccio “giallo” che offre numerose imitaciones de Rolex allusioni alla vera cronaca cittadina di quegli anni. Torino ha il fascino maledetto delle case di ballatoio, del mercato di Porta Palazzo eletto ad accademia dell’arte di arrangiarsi (con il contrabbando di sigarette, ad esempio); in quest’ottica “nera” la città viene mostrata «con lucida esattezza e accorato riguardo. Lizzani ha scorciato la nuova bruttezza, a fastidiosa promiscuità della città infelice, che per un processo di insaccamento si è gonfiata a pseudometropoli» (L. Pestelli, Ibidem).
L’effetto visivo di questa “bruttezza” è talvolta straordinario: «La splendida fotografia di Pasqualino De Santis conferisce una luce spettrale alle periferie industriali in cui si celebrano sanguinoso trionfi di lussuria e di sangue» (P. Bianchi, “II Giorno”, 7.10.1972).
Nella scelta del cast vengono preferiti alcuni volti noti dello spettacolo d’allora: «Bud Spencer, gigante dal cuore buono diviso tra la condizione operaia e l’appartenenza alla mafia; e nella parte del macilento avvocato, Nicola Di Bari, tra l’una e l’altra delle sue vittorie sanremesi. I ruoli dei due bambini sono invece sostenuti dal protagonista e dal deuteragonista del Pinocchio televisivo di Comencini, cioè Andrea Balestri e Domenico Santoro, tradotti di peso in un universo oscuro e illegale che mette a dura prova ogni buonismo» (G. De Santi, Carlo Lizzani, Gremese, Roma, 2001).
Scheda a cura di Emanuele Tealdi
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