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Lungometraggi |
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Trevico-Torino (Viaggio nel Fiat-Nam)
Italia, 1973, 35mm, 98', Colore
Regia Ettore Scola
Soggetto Diego Novelli, Ettore Scola
Sceneggiatura Diego Novelli, Ettore Scola
Fotografia Claudio Cirillo
Musica originale Benedetto Ghiglia
Suono Vittorio Massi
Montaggio Raimondo Crociani
Scenografia Luciano Ricceri
Aiuto regia Giorgio Scotton
Interpreti Paolo Turco (Fortunato), Vittoria Franzinetti (Vicky), Stefania Casini, Vittorio Franzinetti, non professionisti
Direttore di produzione Alessandro von Norman
Produzione Unitelefilm
Distribuzione Cidif
Note Visto censura n. 61.658 del 3.1.1973.
Pellicola Eastmancolor; missaggio: Adriano Taloni; segretario di produzione: Adriano Incrocci.
Premio della Federazione della Stampa Cinematografica 1973.
Sinossi
«Fortunato Santospirito è un giovane che da Trevico giunge a Torino per prendere servizio, come operaio, alla Fiat. Il primo impatto con la città non è dei migliori. Non avendo un posto dove andare, passa dall'atrio della stazione alla mensa per i poveri e al dormitorio pubblico. Un prete, assistente sociale, lo aiuta ad orientarsi. Assunto in fabbrica, fa amicizia con un sindacalista comunista, anch'egli del sud; inizia a frequentare i locali dove si ritrovano gli altri immigrati e dove vengono a fare ”lavoro politico” gli studenti della sinistra extra-parlamentare. Fra questi vi è Vicky, ragazza simpatica anche se un po' saputella, scappata di casa perché con “loro” ormai era un inferno. Nei frequenti incontri che seguono è quasi sempre lei a parlare, espertissima di politica. Fortunato per un po' la sta a sentire, poi avverte la distanza che lo separa da quel modo di pensare. Invia con soddisfazione i primi soldi a casa, anche se la vita si fa sempre più diffìcile: il lavoro, i corsi serali [...] In seguito a un litigio con il caposquadra si vede trasferito ad un altro reparto, dove il lavoro è ancora più faticoso. Matura infine la necessità di doversi opporre a quel modo di vivere e di lavorare» (R. Ellero, Ettore Scola, Il Castoro, Milano 1996).
Dichiarazioni
«Ho un ricordo vivo del mio primo incontro con Ettore Scola, il giorno in cui si presentò alla redazione piemontese de l'Unità, in via Cernaia a Turino. Ero il capo redattore ed Ettore era stato indirizzato a me da amici comuni, in quanto da oltre vent'anni mi occupavo della cronaca cittadina. Nelle pagine nazionali dell'organo del partito comunista italiano scrivevo sul fenomeno dell'immigrazione nella capitale subalpina, delle grandi difficoltà di inserimento che incontravano soprattutto i meridionali nella metropoli dell'automobile, culla della classe operaia, città di Gramsci e dell'”Ordine Nuovo”, dove è cresciuto il virus del comunismo italiano nato dalla scissione di Livorno del partito socialista, nel 1921. [...] Le due grandi questioni all'ordine del giorno in quella stagione politica torinese erano le lotte operaie alla Fiat (o meglio le sconfitte del movimento sindacale) e l'incontenibile afflusso di forza lavoro chiamata a Torino dalla grande fabbrica. Ogni mese giungevano ufficialmente in città, secondo i bollettini dell'ufficio statistica del Municipio, quindicimila nuovi cittadini, per la stragrande maggioranza maschi (al 95%), compresi nell'età trai venti e i quarant'anni. [...] Quando mi parlò la prima volta, Ettore Scola aveva le idee molto chiare, anche se non aveva praticamente nulla di scritto. Voleva raccontare le vicissitudini di un ragazzo del suo paese, Trevico, venuto come tanti altri a Torino alla Mecca della Fiat. Il soggetto consisteva in un foglietto di poche righe: “La storia di Fortunato, giovane meridionale, ingaggiato dalla grande fabbrica, a produrre automobili”. Non esisteva un "trattamento", non parliamo di sceneggiatura. Il ragazzo era il pretesto per far conoscere la realtà della Torino di quegli anni, una città sconvolta da guasti profondi, dove l'individualismo e l'egoismo avevano affievolito la stessa coscienza popolare. [...] Il fatto è che quello sviluppo non aveva leggi, non solo per governare gli altri, ma nemmeno per governare se stesso, per autogarantirsi. Raccontare attraverso la finzione cinematografica questo groviglio di contraddizioni, di duri contrasti non solo da un punto di vista economico, ma anche generazionale, nell'ambito delle stesse fasce sociali, era un'impresa ardua se non impossibile. [...] Ettore Scola, direi, si immerge fisicamente in questa complessa, drammatica ma al contempo stimolante realtà torinese. Non ha tesi in testa da dimostrare, vuole prima di tutto conoscere, capire per poi raccontare. Inizia così una lunga serie di incontri, di colloqui, intrecciati con i sopralluoghi. Trevico?Torino è nato giorno dopo giorno. Alla sera ci trovavamo in qualche vecchia trattoria, oppure direttamente in redazione a discutere gli appuntamenti del giorno dopo, le persone più indicate da coinvolgere per far emergere attraverso le loro parole, le loro esperienze di vita vissuta, quella drammatica realtà. Non sono un teorico del cinema anche se sin dai tempi di “Cinema Nuovo” di Guido Aristarco ho vissuto grandi passioni per l'arte cinematografica. Non so quindi definire, etichettare Trevico?Torino: cinema?verità, Neorealismo, documentario, non le so. Per me è cinema politico (non so quanto questa definizione sia gradita a Ettore) e basta. Politico, non partitico. Politico nel significato più alto di questa parola. Polis. Città. Comunità Uomini. Umanità. E dai personaggi che Ettore fa parlate, che costringe a raccontare la loro vera storia, emerge questa immensa umanità questo senso di fraternità tra uomini. Il prete, don Luciano Mais, una delle più luminose figure torinesi di quegli anni (quando molti dei miei concittadini esponevano sotto gli androni i cartelli con su scritto "non si affitta ai meridionali") impartisce al giovane e smarrito Fortunato una lezione di solidarietà di classe, che stride con il collaborazionismo di tanti parroci de Sud che trescano con l'ufficio manodopera della Fiat. Fiat, parola. magica che in una sequenza di forte impatto emotivo, il protagonista vuole subito vedere la notte stessa del suo arrivo a Torino. [...] Ettore Scola in questa sua opera, stranamente considerata minore(forse per i mezzi poverissimi con cui l'ha realizzata?) ha saputo esprimere come in nessun altro suo film, l'alto livello politico?culturale che lo caratterizza e lo colloca tra i maggiori autori nel panorama cinematografico internazionale» (D. Novelli, in Vito Zagarrio, a cura, Trevico–Cinecittà. L’avventuroso viaggio di Ettore Scola, Marsilio, Venezia, 2002).
«Nell'elaborazione della materia narrativa un ruolo di primo piano lo svolse l'allora caporedattore dell'ufficio torinese de “l'Unità”, Diego Novelli, consigliere di minoranza al Comune e futuro sindaco della città. Grande affabulatore, Novelli pilotò Scola alla scoperta di un'opulenta Torino che mal sopportava l'invasione della gente del Sud in cerca di fortuna. Lo condusse nella Torino delle mense per i poveri, dei dormitori pubblici, dei letti affittati a ore, dove approdavano napoletani, irpini, pugliesi, molisani, siciliani, calabresi, lucani, perduti in una città fredda, umida e scarsamente ospitale. Lo accompagnò nei palazzoni barocchi del centro storico, nelle cui soffitte senza riscaldamento stavano accalcate le famiglie degli operai, quelle che avevano avuto la fortuna di non imbattersi nel famigerato cartello "Non si affitta a meridionali". Fu Novelli a fargli conoscere la diciottenne Vicky Franzinetti, rampolla della buona borghesia torinese (suo padre era un fisico, docente all'università di Ginevra, lo zio senatore del PCI) e militante di Lotta Continua. Come Dramma della gelosia, anche Trevico-Torino metteva in scena la distanza fra le aspirazioni della classe operaia - rappresentata qui dal giovane emigrato irpino - e quelle dei militanti dei gruppi extraparlamentari. […] Sentimentalmente Scola aderisce all'ispida timidezza dell'emigrato meridionale piuttosto che alla lucida consapevolezza politica della militante, che ha sempre una spiegazione per qualunque cosa, come l'industriale Fausto Di Salvio al principio di Riusciranno i nostri eroi. Alla fine Fortunato si allontana da Vicky, come se la sua atavica diffidenza irpina gli impedisca di credere alle utopiche verità sciorinate dalla ragazza. Autonomamente e senza mediazioni ideologiche, egli conquista la consapevolezza che la vita alla catena di montaggio è priva di dignità» (S. Masi, Ettore Scola, Gremese, Roma, 2006).
«Il fatto che la direzione della Fiat, a quanto pare, non ha permesso di girare il film anche nell’interno della fabbrica, ha costretto il regista a descrivere non già il lavoro quanto gli effetti di questo lavoro nella vita misera e solitaria del ragazzo e nel suo animo sensibile e inesperto. In altri termini, Ettore Scola ha messo l’accento sugli aspetti più patetici della storia di Fortunato sia perché Fortunato è un emigrante, sia perché non è stato possibile mostrarlo alla catena di montaggio, in un reparto della Fiat. La prima parte, di piglio documentario, è la migliore. Scola è molto efficace nel mostrarci ciò che “avviene” all’emigrato meridionale a Torino. Stazioni, dormitori, mense, abitazioni, incontri, vita quotidiana, folle, tutto è descritto con quella sobrietà e verità che, in una materia simile, diventano automaticamente indignazione e denunzia. Nella seconda parte, il tentativo amoroso di Fortunato con la ragazza contestatrice aggiunge al sentimentalismo proprio della condizione dell’emigrante quello di un amore timido e casto che, appunto perché il film tratta un caso “tipico”, ha tutta l’aria di essere tipico e invece non lo è» (A. Moravia, Al cinema, Bompiani, Milano, 1975).
«Il populismo qui non manca, ma esso è molto più deamicisiano di quanto Scola non vorrebbe, mostrandoci per esorcismo il suo Fortunato sotto il monumento all’immortale, purtroppo, autore del Cuore. [...] Qui si torna a criteri di cinema-verità, però impuri in quanto a essi si giustappongono furbizie spettacolari tipiche della commedia di costume all’italiota (la lampadina che balla o il divano per strada, cose magari vere, ma che un regista serio avrebbe spietatamente tagliato tanto sembrano false) e convenzioni che risalgono al neorealismo, con tanto di protagonista che sa di giovane attore di mestiere. [...] la linea politica del film quella del consulente Novelli, nella tradizione della denuncia del malgoverno e della lotta per il buongoverno. La lettera finale è in questo senso chiarificatrice, se ancora ce ne fosse stato bisogno, della “giusta via” di Fortunato, integrabile a metà, ma sostanzialmente integrabile secondo gli autori negli schemi non di Agnelli ma di Amendola. Il regista, e dipende anche dalla forza delle situazioni, è però attento a quel tanto di onestà trascurando il quale vi sarebbe mistificazione assoluta: è costretto cioè a prendere atto dell’esistenza di un altro modo di vedere la politica, che è poi quello di LC. [...] Così Trevico-Torino non è poi nella sostanza così diverso dai precedenti film di Scola. Lo è soltanto in una pregevole e importante superficie: il fatto cioè di spostarsi dalla visione romana della realtà italiana verso la periferia; nello scoprire quantomeno una dimensione documentaria e di denuncia a partire da facce vere e strade vere; nel dire cosa è Torino oggi» (G. Fofi, “Quaderni Piacentini” n. 50, poi in Capire con il cinema, Feltrinelli, Milano, 1997).
«Non nuovo al “documentario politico” (aveva già girato Lotta continua a Napoli, nel `71, e un mediometraggio sulla Festa dell'Unità a Roma, l'anno seguente, altri ne girerà in seguito sempre per canto del PCI), Scola ha però in mente qualcosa di diverso dal “film militante” per pochi intimi. Attraverso il ritratto di un giovane meridionale, "straniero" in patria, vorrebbe drammatizzare vari aspetti della condizione operaia, a titolo di "doverosa" amplificazione. Non si può parlare di una vera e propria sceneggiatura, così come non si potrà parlare di una vera e propria distribuzione: il film girerà per i cineclub, più spesso per le feste dell'Unità, approdando alla televisione di stato soltanto nel 1978, cinque anni dopo. […] Il Fortunato di Trevico-Torino (pare che il Fiat-Nam del sottotitolo sia stato imposto dalla distribuzione per rincarare la dose, mutuando uno slogan d'uso corrente che peraltro la natura del film non legittima) potrebbe simbolizzare l'operaio-massa ma il punta di vista di Scola non è il medesimo di Nanni Balestrini e del suo Vogliamo tutto (Milano, 1971). Si insiste maggiormente sull'odissea del giovane immigrato, che viene da Trevico, il paese del regista, piuttosto che sulla qualità del suo "rifiuto", ricondotto in definitiva entro i binari di una "democratica" presa di coscienza. Un film di "denuncia" lodato in genere dalla critica per l'impegno sociale espresso (segnalazione SNCCI, menzione FIPRESCI) e accolta con perplessità (o disappunto) dai gruppi dell'estrema sinistra, il cui "punto di vista" è sommariamente riassunto dal personaggio di Vicky, militante di Lotta Continua, simpatica ma dalle idee confusamente rivoluzionarie, di estrazione borghese. Merita peraltro di considerare quanto scrive, da "destra", Paolo Valmarana sul quotidiano della Democrazia Cristiana. Osserva che “non c'è nelle giornate di Fortunato una cesura di serenità, un prato e una ragazza (in realtà ci sarebbe, ma è Vicky..., n.d.r.), una domenica al calcio, una pizza con i compagni di lavoro; tutto è fabbrica e fatica, sforzo e tensione, alienazione e stanchezza” (“Il Popolo”, 11 maggio 1973). Forzature di regia, che seconda Valmarana finiscono per togliere credibilità al “dichiarato realismo della struttura cinematografica”» (R. Ellero, Ettore Scola, La Nuova Italia, Firenze, 1988).
«L'attenzione di Scola si sofferma sul personaggio Fortunato dal suo arrivo a Torino, città sconosciuta e ostile, espressione di un ambiente estraneo al giovane ragazzo del Sud che come gli altri ha lasciato alle spalle la propria cultura contadina per immergersi in una realtà totalmente diversa sotto tutti i punti di vista, nel difficile cammino dell'inserimento nella fabbrica e dei rapporti interpersonali. Se l'esile figura del giovane immigrato colpisce lo spettatore che percepisce immediatamente il contrasto con l'ambiente cittadino che lo circonda, a questo impatto in primo luogo visivo si viene a sovrapporre un ulteriore aspetto, quello linguistico, che contribuisce a definire con più chiarezza questa sorta di contrasto. […] All'eloquio meridionale di Fortunato fanno eco le diverse varietà regionali degli altri immigrati siciliani, sardi, napoletani e anche, sia pure con una ricorrenza sporadica, trentini e perfino toscani, che fanno da corollario alla storia del giovane operaio con le loro testimonianze caratterizzate da una sintassi in molti casi incerta e talvolta un po' sconclusionata, a riprova di una reale difficoltà ad esprimersi con una lingua non ancora agilmente dominata» (P. Micheli, Ettore Scola, i film e le parole, Bulzoni, Roma, 1993).
«La grande Storia che Scola non ci fa mai vedere nei suoi film precedenti e successivi (nemmeno quelli come C'eravamo tanto amati, Una giornata particolare, La famiglia, La terrazza nei quali il perimetro politico è più forte e più aderente alla materia trattata), in questo caso unico coincide con il film stesso in una sorta di presa diretta. Scola ha voluto farsi da parte, adottando alla lettera il metodo zavattiniano del pedinamento del personaggio e, per tanti versi, la prima parte del film ci coinvolge di più perché ci costringe a partecipare alle difficoltà e alle miserie, che sono continue offese alla dignità della persona, cui il giovane protagonista Fortunato va incontro in una Torino oscura, fredda, nebbiosa e, per alcuni aspetti anche misteriosa e macabra. Notevole a questo proposito è la lunga sequenza della sala d'aspetto della stazione Porta Nuova, dove Fortunato, dopo vari tentativi falliti di trovare un alloggio per dormire, si acconcia a passare la notte. In questa squallida sala, popolata da un'umanità emarginata, sbandata e sofferente, fuoriescono dal buio molte figure-mostri, che soggiornano lì, tra cui un ubriaco molesto, maltrattato da un sedicente guardiano in borghese in preda ad una crisi isterica, volti di operai disperati che dichiarano apertamente il loro smarrimento e soprattutto la figura di una donna grassa e ambigua, non più giovane, che regala arance e vuole proteggere Fortunato, al quale presenta poi due travestiti per farlo andare a dormire a casa loro. […] Il divieto assoluto di Gianni Agnelli, che aveva impedito di girare un solo metro di pellicola all'interno della Fiat viene trasformato da Scola in un mezzo
espressivo molto efficace. Così non vediamo mai quello che succede dentro la Fiat, ma constatiamo quello che l'industria automobilistica produce a livello sociale, soprattutto il suo degrado che metabolizza gli esseri umani come fossero scorie da eliminare e li costringe a vivere come topi, a rifugiarsi in dormitori pubblici, a mangiare in mense sociali, a riscaldarsi in sale d'aspetto fatiscenti per derelitti abbandonati al loro destino. […] Molta cura Scola ha prestato al sonoro, che appare qui, forse più che in ogni altro film, determinante per l'elaborazione delle singole scene. Osserviamo che la continua esibizione dei discorsi degli operai che parlano tra loro, l'uso ripetuto delle didascalie come si trattasse di un film muto e la predilezione per i primi e primissimi piani, sembra addirittura richiamare alcuni degli stilemi preferiti di Sergej M. Ejzenštejn, adoperati in moltissimi film (Ottobre, Sciopero La corazzata Potemkin) quasi a prefigurare una sorta di "base carsica" che preluderebbe allo scoppio della rivoluzione trionfante. Fortunato guarda allibito quel mondo perché il suo mondo, quello contadino da cui proviene, come lui stesso confessa alla ragazza Vicky (Victoria Franzinetti) che cerca di farlo maturare, non conosce quelle brutture, frutto di una società industrializzata che abbandona per strada chi non ce la fa» (E. Bispuri, Ettore Scola, un umanista nel cinema italiano, Bulzoni, Roma, 2006).
Scheda a cura di Vittorio Sclaverani
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