«A Parigi in giorno piovoso, in uno studio umido e poco arieggiato il vecchio Man Ray mi diede un foglietto su cui stava scritto il sintetico testo di un film mai realizzato, Revolving Doors, che divenne presto le mie Porte girevoli. Ancora una volta il genio di Galeno, il mio attore più assiduo e più intento, brillò sotto le lenti dello zoom Augenieux» (U. Nespolo, “La Stampa - TorinoSette”, 13.6.2008).
«Questa estensione dell’opera di Man Ray rientra nel mio personale museo dell’arte del Novecento» (U. Nespolo, dichiarazione inedita).
«Le porte girevoli, in francese Les portes tournantes, in inglese Revolving Doors, secondo il loro nome d’origine, rappresentano un’opera celebre di Man Ray, che ha avuto un’evoluzione lunga e complessa. All’inizio, si tratta di dieci collage eseguiti con fogli trasparenti colorati, sovrapposti in maniera da ottenere i colori complementari. […] Man Ray intraprende una riflessione filosofica su queste dieci forme che portano nomi piuttosto suggestivi: Mime, Long distance, Orchestra, The meeting, Legend, Decanter, Jeune fille, Shadows, Concrete mixer, Dragon fly. Le Porte girevoli gli offrono in seguito l’inspirazione per un testo poetico dallo stesso titolo, che sembra scritto in uno stato di esaltazione, del resto sempre molto intellettuale. Questo testo è stato composto all’inizio in inglese, poi tradotto in francese con l’aiuto di Paul Eluard e pubblicato nella celebre rivista "Minotauro"» (Janus, in Nespolo, Art’è, Villanova di Castenaso, 2003).
La vis creativa dell’idea di Ray, non ancora esaurita, approda al cinema: in Pepsy Diary (scritto tra il 1953 e il 1959), Man Ray osserva che le Porte girevoli – già pitture, opera grafica, collage e letteratura – potrebbero diventare anche cinema; lo diventano con Nespolo che, già impegnato con i suoi quadri in una serie di trasposizioni pitturali, riprende il progetto presente nei diari di Man Ray. L’opera dell’artista torinese «si presenta come un’estensione ulteriore del progetto di Man Ray, realizzata con un atteggiamento mimetico di identificazione, in cui l‘artista all’opera si propone come figura vicaria, erede operativo, sosia creativo dell’artista dell’avanguardia storica» (P. Bertetto, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono (a cura), Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001).
Nespolo fa pertanto rivivere alcune figure dell’immaginario del cinema di Man Ray («la modella, l’artista, gli oggetti d’affezione filmati, la donna nuda e il libro: si pensi al piede di una donna che schiaccia un libro aperto in L’étoile de mer», fa notare Bertetto). L’artista torinese crea così un universo di citazioni nel quale ogni elemento rinvia ad altro, «è un simulacro che vive di riflesso […]. Così il film si inserisce nel piccolo-grande Museo dei Musei dell’Arte del Novecento, che Nespolo costruisce da anni» (P. Bertetto, in Nespolo, cit.).