Da sempre impegnato sul terreno del video sociale, Daniele Segre realizza con Occhi che videro la sua impresa più difficile, dimostrando di avere una dote fondamentale per un buon documentarista: la capacità di far risultare sullo schermo le persone così come sono nella vita. Maria Adriana Prolo, fondatrice del Museo Nazionale del Cinema, è uno dei personaggi più importanti e al tempo stesso eccentrici del cinema torinese. Occhi che videro è anche un insieme di riflessioni sul cinema da parte di un regista il cui atteggiamento, con un eufemismo, si potrebbe definire anti-cinefilo.
«Di primo acchito pare un corpo estraneo nell’ “aspra” produzione di Segre: l’atmosfera è magica, sospesa, irreale, il tema, la rappresentazione della finzione, anzi, dell’amore, per gli strumenti che fanno la finzione. Eppure il filo rosso c’è: la ricerca della verità profonda delle cose, nell’equilibrio tra rispetto e coinvolgimento verso la realtà che scaturisce dalle cose, dalle persone. […] I caldi, lunghi movimenti di macchina, le luci avvolgenti, preziose, che racchiudono in un pulviscolo a volte dorato le attrezzature, astraendole ed animandole ad un tempo, l’uso misurato ed attento dei materiali di repertorio, che […] formano un’intelaiatura sulla quale emerge la dolce eppur fortissima personalità di Maria Adriana Prolo, demiurgo tra il mondo reale e quello, separato, delle ombre. Quella che lei racconta, tuttavia, è una storia concreta, di soldi, di mura, di difficoltà, di passione. Ci pare che questa in fondo sia, paradossalmente, l’opera nella quale Segre più si scopre, un atto d’amore, inusuale e assai poco cinefilo, nei confronti del cinema» (P. Vecchi e M.I. Zambelli, “Cineforum”, n. 9, settembre 1990).
Occhi che videro diventa così documento di un’esperienza in sé esemplare, degna di essere raccontata per il suo valore intrinseco, ma anche tappa fondamentale di un processo in continua ascesa, di una ricerca curiosa, ambigua, testarda (e i tre aggettivi vanno interpretati nella più nobile delle accezioni).
«Per niente a disagio di fronte alla cinepresa, Adriana Prolo segue il regista come un'attrice di provata esperienza, facendo quei gesti che per decenni ha ripetuto stando dietro la scrivania del suo ufficio di direttrice. Dice: "Anche se si tratta di finzione è un po' come andare indietro nel tempo, riscoprire gli anni in cui il museo era soltanto un bel sogno annotato sulla mia agenda del 1941" [...] lei, "la dottoressa", con la sua memoria di ferro, non vuole essere come un qualsiasi personaggio nato dal copione. Il museo del Cinema è una sua creatura e per la fantasia c'è poco spazio. Aggiunge: "Bisognerà parlare dei miei incontri con il regista di Cabiria, Giovanni Pastrone, con l'avv. Gromo e con il prof. Valletta. Sono loro che mi hanno dato la forza di continuare, di vincere lo sconforto quando non avevo denaro sufficiente per acquistare materiale prezioso per la collezione". Sono ricordi di 40 anni di lavoro che tornano alla mente di Adriana Prolo mentre la cinepresa compie carrellate su vedute d'ottica, lanterne magiche, pantoscopi, diorami, acquistati con il contributo della Cassa di Risparmio di Torino e della Fiat: "Mi avevano dato 9100 lire". Adriana Prolo resterà sul set soltanto il tempo strettamente necessario per consentire al regista, mio grande amico, di girare le scene che la riguardano; poi tornerà nell'ombra, ai suoi studi e alle sue ricerche. Sta scrivendo il secondo volume della Storia del cinema, opera impegnativa che intende terminare nei tempi concordati con l'editore a costo di rinunciare alla sua grande passione: vedere un film. Ha, infatti, preso un impegno con se stessa: "Niente cinema fino alla conclusione del lavoro. Neppure televisione che, tra l'altro, detesto"» (E. Montà, “La Stampa”, 4.8.1988).
«[...] nel bel ritratto che in occasione della riapertura del Museo (e dei suoi ottant'anni) le ha dedicato Daniele Segre - intitolato Occhi che videro [...] - questa fiera vecchia signora, depositaria di decenni di preziose memorie, è certo all'altezza delle grandi dive del cinema che ha amato e protetto. Non è del resto un caso che nel renderle omaggio il più irriducibile dei cineasti indipendenti torinesi ("Lei signora ha la testa dura?" le chiede strizzando l'occhio a quanti sanno che Testadura era il titolo di un suo film manifesto) accosti le sue espressioni altere in un montaggio malizioso, a quelle della divina Francesca Bertini» (P. D'Agostini, “la Repubblica”, 12.7.1989).
«Cinquanta minuti a colori e in bianco e nero, pendolari tra presente e passato, con un pizzico di umorismo, tanta nostalgia e molto affetto. l'omaggio che Daniele Segre, regista torinese, ha dedicato a Maria Adriana Prolo, fondatrice e ostinata conservatrice in tutti questi anni del museo Nazionale del Cinema. Il film fotografa il Museo così come era fino al 1984, nelle sedici stanze al pianterreno di Palazzo Chiablese. Racconta la storia della sua romantica e testarda direttrice. Il titolo, Occhi che videro, è quello del primo film che probabilmente lei ha visto, ma ancor più si adatta alla figura e al volto di questa donna tenace e al suo progetto: raccogliere tutta la documentazione possibile sul cinema che ha fatto conoscere Torino in tutto il mondo: “La nostra città era nota perle caramelle, le automobili e le pellicole”. Atmosfera ovattata, luci calde, splendida fotografia, aneddoti simpatici, il lavoro di Segre è una testimonianza di quello che fu. Preziosa, da rivedere ogni tanto per non scordare del tutto l'epoca e lo spirito dei pionieri» (G. Favetto, “la Repubblica, 29.4.1989).
«Palazzo Chiablese resterà per sempre nel cuore dei cinefili torinesi come la sede storica del Museo del Cinema. […] La sede attuale è bellissima, molto più funzionale, capace di valorizzare al meglio le collezioni: ma non è difficile trovare tra i cinefili di una certa età una sorta di rimpianto per quel posto quasi sacrale, mistico. Chi volesse, può ritrovarlo nel bel documentario di Daniele Segre Occhi che videro, scritto da Davide Ferrarlo e
Donata Pesenti: è un'intervista alla fondatrice e l'ambiente restituisce quell'epoca che non c'è più» (S. Della Casa, “La Stampa-TorinoSette”, 8.4.2011).
«Caldo omaggio e preziosa testimonianza di un cinema della memoria, Occhi che videro (...) si propone come ideale momento d'incontro, tra passato e presente, di una stessa profonda passione per il cinema» (“II Giornale di Bergamo Oggi”, 6.7.1989).