Con Il partigiano Johnny Guido Chiesa realizza il suo desiderio più ambizioso: portare al cinema il romanzo di Beppe Fenoglio di cui è stata pubblicata postuma una prima versione nel 1968. Questa impresa non è riuscita a molti altri registi e sceneggiatori, a causa dell’irriducibilità dello scrittore all’interno di schemi precostituiti, a causa del suo stile di scrittura molto personale e irriproducibile con mezzi audiovisivi. Chiesa, da appassionato studioso (non solo in campo cinematografico) della Resistenza piemontese e delle Langhe, si avvicina al romanzo di Fenoglio conservandone il tratto più rilevante, ovvero le inquietudini del giovane Johnny davanti ai formalismi ideologici dei suoi compagni partigiani. Il suo è un travaglio esistenziale che lo porta all’azione solitaria in un Paese diviso da una guerra civile.
Sia come film storico, sia come storia della crescita di un individuo, Il partigiano Johnny racconta vicende che si svolgono ad Alba e nelle Langhe, ritratte tramite «immagini quasi scabre, colorate con una tavolozza neutra e omogenea» (E. Magrelli, "Film TV", 21.11.2000). Questa zona del Piemonte pare un luogo piuttosto difficile da penetrare soprattutto per quanto riguarda la mentalità della gente: il loro tratto più comune, infatti, è «una diffusa riluttanza a dare confidenza, una tendenza atavica a risolvere i problemi senza chiedere niente a nessuno» (S. Della Casa, “Kataweb Cinema”).
Recuperando, secondo alcuni, gli insegnamenti del Neorealismo (in particolare, di Paisà di Roberto Rossellini, da cui Guido Chiesa mutua la frase conclusiva, che annuncia la fine della guerra), il regista torinese firma un film «più attento alla verosimiglianza che agli aspetti spettacolari» (Tullio Kezich, "Corriere della Sera", 18.11.2000). Pertanto il film assume quasi l’aspetto di un documento storico, perché immerge «la freschezza della testimonianza in una scrupolosa ambientazione resa ancor più suggestiva dal ricorso a una sorta di decolorazione dell’immagine nella bella fotografia di Gherardo Gossi» (Ibidem).
Proprio Gherardo Gossi spiega i principi in base ai quali è stato deciso il taglio fotografico da dare alle inquadrature: «i nostri punti di riferimento erano per lo più documentari d’epoca e foto sulla Resistenza. L’idea di fondo era di evitare una visione edulcorata della guerra, con immagini troppo ripulite e partigiani che sembrassero modelli (in questo senso scenografo e costumista hanno dato un apporto fondamentale), cercando invece di riprodurre col maggior realismo possibile l’anno e mezzo vissuto tra e montagne, gli stenti e il freddo, la fatica sul volto degli attori e l‘autenticità degli ambienti non ricostruiti. [...] Guido ha deciso fin dall’inizio che il modo migliore di raccontare il romanzo di Fenoglio sarebbe stato quello di vedere la realtà attraverso gli occhi di Johnny, stando addosso al protagonista [...]. Inoltre, per sottolineare l’atmosfera cupa e drammatica della guerra, abbiamo lavorato, sia durante le riprese che durante la fase di stampa della pellicola, sulla decolorazione e sull’enfatizzazione della grana della pellicola, smorzando l’intensità dei colori e aumentando molto i contrasti» (G. Gossi, in D. De Gaetano, a cura, Tra emozione e ragione. Il cinema di Guido Chiesa, Lindau, Torino, 2000).
Anche la colonna sonora del film è stata studiata con cura meticolosa, soprattutto per quanto riguarda la presa diretta di dialoghi e rumori. «Essendo un film d’epoca», afferma il musicista e fonico Giuseppe Napoli, «la presa diretta è stata piuttosto complicata visto che, come per gli elementi architettonici e scenografici, abbiamo dovuto trovare le ambientazioni giuste per evitare rumori inopportuni o anacronistici. [...] Per Guido fare la presa diretta del suono non è una scelta di convenienza economica ma risponde a precise esigenze registiche: è una pratica faticosa ma che esalta la resa espressiva dei rumori sulla scena e soprattutto dà maggiore efficacia alla recitazione degli attori» (G. Napoli, Ibidem).
Il film – come già il romanzo – costituisce una riflessione «su un uomo in guerra, sul mestiere di sopravvivere, sul “lavoro” del partigiano. [...] Incontri, fughe, rastrellamenti, pioggia, fango, agguati, sangue, paura, ti restano infine negli occhi in una forma ripetitiva, ossessiva, selvaggia, come in una cronaca pittorica della disperazione di libertà» (S. Danese, “Il Giorno”, 18.11.2000).
L’inquietudine e la formazione del protagonista si legano alla crudeltà ed all’incertezza della situazione storica: una guerra terribile viene «combattuta tra freddo, pioggia e stenti, dove si attacca e si è attaccati di sorpresa, bisogna fuggire e nascondersi, si conquista una città sapendo di perderla subito dopo. Chiunque può essere un amico o un traditore: e dall´alternativa dipende la vita del partigiano [...] il film di Chiesa intende soprattutto mettere in scena questa sofferenza, la quotidianità di una guerra [...] in cui [...] ogni azione può scatenare una rappresaglia sanguinosa sulla popolazione civile» (E. Magrelli, Op. cit.).
Del film, la critica ha apprezzato le interpretazioni degli attori e le ambientazioni, qualcuno ha notato l’anacronismo di far suonare Moonlight Serenade di Glenn Miller in una festa nell’autunno 1944. «Per misurare la coerenza antiretorica di Chiesa basterebbe paragonare il suo film con La tregua, l'adattamento del romanzo di Primo Levi diretto tre anni fa da Francesco Rosi. I modelli del regista torinese sono altri: il cinema neorealista, e in particolare l'ultimo episodio di Paisà, da un lato, dall'altro La sottile linea rossa di Terrence Malick. L'unica cosa che stona, in tutto ciò, è a carico della colonna sonora, con la musica invadente di Alexander Balanescu e la voce over-screen che narra o commenta in inglese. Invece le scene di guerra risultano assolutamente convincenti, proprio per l'essenza di eticità e l'inesorabile ripetitività con cui sono rappresentate.
L'ambientazione “on location” sui luoghi dell'azione è ineccepibile. Ottima l'interpretazione di Stefano Dionisi, adeguato e ben diretto tutto il cast» (R. Nepoti, “la Repubblica”, 18..11.2000).
Il film è interamente piemontese: oltre all’ambientazione e al regista sono piemontesi molti collaboratori di Guido Chiesa, dal direttore della fotografia Gherardo Gossi al montatore Luca Gasparini e all’operatore steadycam Giovanni Gebbia.
Una curiosità riguarda la seconda banda partigiana a cui Johnny si unisce, la Martini Mauri, brigata azzurra composta da militari dell´ex-esercito regio: nella realtà storica ne fece parte, tra gli altri, Folco Lulli, l’attore che dopo la fine della guerra avrebbe interpretato molti ruoli di gerarca fascista.
«Il partigiano Johnny (2000) è il film di una vita. Chiesa ha sempre manifestato un profondo interesse per la Resistenza come scelta etica e politica (vista attraverso gli occhi dell'attualità) e una profonda ammirazione per Beppe Fenoglio, ex partigiano e figura anomala nel panorama culturale italiano del dopoguerra. Il percorso di avvicinamento è stato molto lungo: dal soggetto La guerra di Johnny, scritto quando era ancora negli Stati Uniti, al documentario Una questione privata (1998) - che ripercorre la vita dello scrittore albese, morto nel 1963 a 41 anni, attraverso interviste a familiari, ad amici e ai più stretti collaboratori - fino alto spettacolo Un giorno di fuoco con musica dal vivo dei CSI organizzato ad Alba nel 1996. Il film (splendida fotografia di Gherardo Gossi) è un adattamento più allo spirito che alla lettera dell'omonimo romanzo, mantenendo al centro della narrazione lo sguardo distaccato e privo di scavo psicologico del protagonista (Stefano Dionisi) sulla guerra civile, sulle bande partigiane, sulle imboscate. Secondo Chiesa, Johnny fornisce un esempio "inattuale" rispetto alla società globalizzata e omologata di oggi perché compie una scelta e la persegue in maniera rigorosa, senza accettare compromessi e mediocrità, anche a costo di restare solo» (D. De Gaetano, “Quaderni del CSCI” n. 6, 2010).