Torino per me è la ragazza con cui ci si fidanza per tutta la vita, ma alla fine non si sposa. Ho imparato ad amarla, andandomene. Così, da lontano, ho scoperto la sua bellezza e unicità. Il suo grigiore è diventato alone di atmosfere rarefatte e indefinite; la ruvidezza e un certo snobismo intellettuale della sua gente si è trasformato in rigore ed indefesso senso del dovere, tipico delle popolazioni montane, pervase di calvinismo. Ho conosciuto, da bambino, la Torino operaia di Barriera di Milano: mio padre ha lavorato per quarant’anni alla Fiat. Da giovane, la raffinatezza intellettuale di maestri come Pareyson, Firpo, Vattimo e Bobbio. E l’ho amata attraverso le pagine di Pavese e di Primo Levi, prima, e di Calvino, poi. Quando sono tornato, come un figliol prodigo, l’ho abbracciata come una madre che si pensava perduta per sempre. Ho percorso più volte a piedi i chilometri dei suoi portici, come una specie di rito propiziatorio, dimenticato nel tempo. Non casualmente ho parlato di madre: a Torino sono nati cinema, televisione, radio, la Fiat, ha mosso i primi passi il comunismo di Gramsci, Togliatti, e il pensiero liberale e antifascista di Gobetti, hanno messo radici case editrici quali Einaudi e Utet. È la città dei “santi sociali”, la cui tradizione è stata raccolta dal Gruppo Abele e dal Sermig. Cosa rimane oggi di tutto questo? Poco. Il Museo del Cinema è un’opera unica al mondo. Rara nella sua bellezza, ci ricorda gli antichi fasti di un’arte e una città che ha forse la più efficiente Film Commision del nostro Paese, ma non è ancora riuscita a convincere i “torinesi della finanza” a investire seriamente nella produzione di cinema. La Torino del futuro cosa sarà? Questa è la scommessa a cui tutti noi, specialmente i giovani e gli artisti, siamo invitati a riflettere. Estrema periferia di un impero in decadenza, o luogo rinnovato di fermenti interculturali, polo di innovazione di linguaggi innovativi e originali? E, soprattutto, Torino sarà una città verde? o sempre più cementificata da opere faraoniche, di cui non si intravede la fine e il fine?
(Dichiarazione originale)
Per me il cinema è l’emozione di poter inventare una realtà dove possa aver posto la poesia,quella poesia che vive e si nasconde nelle cose, nei volti della gente, di uomini, donne che ci passano accanto a migliaia, ognuno con qualcosa di sé da raccontare. Con qualcosa che valga la pena di ascoltare e che, invece, il più delle volte rimane taciuto, sommerso, inascoltato. [...] Il cinema è anche coraggio, follia, rischio, paura, mistero, ricerca dell’ignoto. Richiede l’incoscienza di un trapezista e la tenacia e la precisione di un ingegnere. Guido Aristarco, di cui sono stato allievo a Torino, quando gli chiesi come potevo iniziare a far cinema, mi consigliò di lasciar perdere, “perché è troppo difficile e rischioso: meglio parlarne che farlo”Città di Torino (Assessorato alla Gioventù, Cinema e video a Torino 1992, E.D.T., Torino, 1992).